La sentenza in commento fa riflettere su quanto la famiglia di origine possa influenzare e causare, in particolare nelle personalità fragili, un’immaturità psico-affettiva tale da determinare nel nubente l’incapacitas a esprimere un valido consenso canonicamente inteso[1].

La coppia nasce dall’incontro di due persone che portano con sé vissuti ed esperienze diversi, frutto di relazioni e rapporti con il nucleo di appartenenza, che possono influenzare l’unità e l’identità della medesima: indirettamente, divenendo modello di interazione e di relazione al quale ci si ispira perché proprio dei genitori; direttamente, qualora il contesto parentale, con i suoi comportamenti, eserciti la propria presenza (rectius: ingerenza) nella coppia, c.d. famiglia intrusiva, oppure la propria assenza, c.d. famiglia disimpegnata, sin dal periodo prematrimoniale.

La sentenza coram Lia, 4 giugno 2024, prot. n. 67/2024 del Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Pugliese di Bari dichiara la nullità del matrimonio per incapacità dell’attrice ex can. 1095 c.i.c., ossia per grave difetto di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente (can. 1095 n. 2) e per incapacità, sempre da parte della stessa, ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica (can. 1095 n. 3).

La causa psichica che ha compromesso la capacità al matrimonio della sig.ra S., dai punti di vista della valutazione critica, della libertà interiore e dell’assunzione degli oneri coniugali, è l’immaturità psico-affettiva, che – come si legge nella decisione – rileva ai fini della nullità del matrimonio quando «intacca sostanzialmente le componenti essenziali della capacità consensuale e non quando costituisce soltanto una limitazione dello sviluppo della maturità personale; ovvero, quando incide gravemente sia sulla formazione del giudizio critico-valutativo in materia dei diritti e doveri coniugali essenziali, sia sul processo volitivo della scelta, sia anche sulla disposizione e idoneità per l’assunzione degli obblighi essenziali del matrimonio» (p. 18, n. 13).

Nella pronuncia in esame, già nella parte in iure, si sottolinea quanto i vissuti pregressi all’interno della famiglia d’origine, in specie durante l’infanzia e l’adolescenza, possano incidere sulla capacità di esprimere il consenso matrimoniale secondo quanto richiesto dalla normativa canonica. Trattasi di eventi, comportamenti e circostanze da valutare con attenzione in fase processuale al fine di provare l’esistenza o meno nel nubente di una condizione di immaturità psico-affettiva, o di altra grave anomalia psichica, tale da incidere negativamente sulla valida formazione del “sì”.

Secondo il Collegio giudicante fra i tratti tipici di detta immaturità vi sono: «incapacità di controllare e dominare le pulsioni emotive e passionali; insicurezza decisionale e tendenza a riproporre gli schemi affettivo-emotivi dell’infanzia; difficoltà a instaurare validi rapporti interpersonali e sociali; incapacità ad affrontare e ad adattarsi a situazioni nuove, che impongono sforzi organizzativi; inettitudine a vivere una minimale relazione interpersonale matrimoniale; incapacità a vivere il matrimonio come legame stabile, definitivo e oblativo» (p. 19, n. 13). In particolare si ritiene che elementi utili per valutare una condizione di immaturità siano appunto «le vicissitudini dell’età evolutiva, le modalità delle relazioni interpersonali, i disadattamenti sociali, l’insufficiente autonomia, i modi incongrui di comportamento quotidiano» (ibidem).

Sul piano probatorio, infatti, «le dichiarazioni delle parti e dei testimoni devono riguardare il vissuto biografico, il contesto familiare e la vita coniugale del soggetto, e precisare soprattutto le dinamiche psichiche inadeguate nell’elaborazione del consenso» (pp. 19-20, n. 14).

Nella parte in facto della decisione si fa espresso riferimento proprio all’ambito familiare in cui S. è vissuta e alla figura genitoriale paterna: «nella sua dichiarazione giudiziale la donna riferisce di essere cresciuta in un contesto familiare rigido e sostanzialmente privo di dialogo, calore affettivo e gesti di tenerezza, caratterizzato dalla severità del padre, uomo dall’indole autoritaria e decisionista, che ricorre a metodi educativi coercitivi. In proposito, l’attrice dichiara: “Ho avuto due genitori anaffettivi e mia madre è stata sempre succube di mio padre, tant’è vero che ha accettato circa nove allontanamenti di mio padre, il quale poi, intratteneva altre relazioni” (Summ. 89/4). Ed ancora: “Mio padre, oltre ad essere una persona anaffettiva, era molto autoritario, decisionista ed egocentrico e ci ha sempre condizionato negativamente nelle nostre scelte” (Summ. 89/4). Il comportamento prepotente e duro del padre impedisce la creazione di un legame sano e rassicurante, generando al contrario nell’attrice timore e paura, inducendola a chiudersi in sé stessa, accentuando un senso di vuoto e solitudine, favorendo l’introversione, compromettendo la sua serenità e inibendo lo sviluppo di una personalità equilibrata e autonoma, nonché la predisposizione all’apertura e all’espansività nei rapporti sociali» (pp. 22-23, n. 18). In effetti l’attrice – si puntualizza – «cresce in un nucleo familiare disfunzionale, all’interno del quale mancano le manifestazioni emotive, l’espressione dell’affettività, l’attenzione, la vicinanza, la dedizione, l’ascolto e la comunicazione» (p. 23, n. 18).

Le deposizioni dei testimoni escussi, riportate in sentenza, confermano il quadro psicologico della parte attrice, che viene presentata in modo unanime come una persona con «indole introversa e remissiva […], l’ambiente familiare rigido e anaffettivo, l’impostazione educativa austera, la relazione conflittuale, problematica e disfunzionale tra S. e la figura paterna. Concordemente la donna viene tratteggiata come “una persona fragile, insicura e ha bisogno di conferme e non sa stare da sola” (Summ. 93/4) e come una persona “chiusa e fragile” (Summ. 97/4)» (pp. 23-24, n. 19). Tale «relazione disfunzionale instaurata con i genitori, in special modo con la figura paterna, ha severamente condizionato lo sviluppo psicologico e il percorso di crescita di S., impedendole di maturare un’emotività integrata ed una personalità equilibrata» (pp. 24-25, n. 19).

L’esito peritale ha confermato e provato il tutto evidenziando che «i rapporti impostati in modo distorto dai genitori, quindi, hanno generato nella giovanissima S. un senso di rifiuto e di svalutazione, causando in lei vissuti emotivi di inferiorità, inadeguatezza e scarsa autostima, inducendola a sviluppare sfiducia nelle proprie capacità e poca considerazione di sé. Sperimentare rifiuto, umiliazioni e discriminazioni da parte delle figure di riferimento, che sono la fonte principale per la costruzione dei modelli operativi interni e delle immagini relative a sé stessi e agli altri, dunque, ha comportato in S. l’interiorizzazione di immagini negative di sé, associate a paura a stare da sola e senso di inutilità» (pp. 25-26, n. 20). Pertanto, il perito conclude che «il contesto parentale non ha consentito a S. di vivere quell’iter evolutivo adeguato al raggiungimento di un equilibrio psico-fisico e relazionale, né l’ha aiutata a crescere armonicamente nell’autostima, nella fiducia, nello sviluppo dell’indipendenza psicologica, nell’autonomia di giudizio e nella capacità di decidere» (p. 27, n. 20). Cresciuta in un ambiente familiare rigido e oppressivo, S. – sottolinea il Ponente – viene ben presto conquistata «dall’affabilità, dall’espansività e dall’allegria del convenuto, che le permette di trascorrere del tempo in modo spensierato e allegro. Si tratta evidentemente di sensazioni frivole, che però hanno spinto l’attrice ad iniziare una relazione affettiva con il convenuto» (p. 28, n. 21). Grazie a G., infatti, l’attrice torna a vivere e si sente importante. Tuttavia, si precisa nella decisione, le attenzioni fra loro sono superficiali, visto che «la dimensione del desiderio, dell’attrazione, del piacere sono per S. eluse. L’esclusione della passione caratterizza immediatamente quella relazione come basata su un transfert genitoriale. G. le dà ciò che suo padre non è riuscito a darle: sicurezza, protezione, presenza e costanza» (p. 28, n. 21). Alla luce del comportamento della donna è palese che la decisione di quest’ultima di sposare G. sia stata superficiale e non ponderata, «apparendo piuttosto come un ingenuo ed affrettato tentativo di soluzione del suo stato di malessere patito in famiglia. La donna non ha guardato in faccia la realtà: avendo accreditato il fidanzato di quel tanto di valore necessario ai suoi bisogni psichici interni» (p. 32, n. 23). Il tutto – secondo i Giudici – attesta che nella parte attrice, al momento del consenso, vi fosse «una grave carenza di capacità estimativa in ordine alla relazione affettiva, alla decisione nuziale e al progetto matrimoniale» (p. 34, n. 24).

Il Collegio concorda con gli esiti peritali e riporta le conclusioni del consulente tecnico, il quale precisa proprio che «l’anomalia presentata dall’attrice ha avuto origine nell’ambiente familiare profondamente problematico e prima ancora nel legame di attaccamento insicuro-ambivalente, che si era creato tra genitori e figlia e che ha costituito la base su cui la donna ha incanalato le vicende emozionalmente significative della propria vita affettiva con il convenuto. […] l’assetto psicologico dell’attrice, caratterizzato da una personalità fragile, formalmente dipendente e compiacente, insicura ed ansiosa, ha compromesso gravemente le sue facoltà critiche e volitive in relazione alla scelta matrimoniale, poiché le esperienze traumatiche vissute nell’infanzia hanno privato la donna della tranquillità necessaria per elaborare un giudizio pratico in merito al matrimonio ed hanno ostacolato il corretto esame della realtà. […] La condizione psichica deficitaria di S., così strutturata a causa dei carenti legami affettivi con le figure parentali primarie, ha reso l’attrice inadeguata anche ad assumere gli oneri essenziali del matrimonio e a realizzare con il coniuge una vera comunione di vita» (pp. 35-36, nn. 25-26).

Il modello della famiglia originaria ha inciso anche sulle dinamiche della convivenza matrimoniale e sulla sua durata, ben sette anni; tanti per una relazione coniugale conflittuale, frustrante e inappagante, tormentata da problemi di salute e infedeltà da parte dell’attrice, che ha una figlia da una relazione extraconiugale e che, mentendo, ne attribuisce la paternità al marito. È poi sempre S. che, addirittura, all’esito del test del DNA, intraprende l’azione di disconoscimento della paternità, come lei stessa confessa (cfr. p. 36, n. 26 ad finem).

Trattasi di ulteriori circostanze che vengono attentamente interpretate dai Giudici del Tribunale barese tenendo «in debito conto l’alterata condizione psichica dell’attrice, ma soprattutto l’esempio di vita matrimoniale ricevuto nella propria famiglia di origine e il modello di relazione coniugale appreso dalla madre, che la donna ha sostanzialmente riprodotto nel rapporto con il marito, come ella stessa attesta in sede giudiziale» (p. 37, n. 27).

Patrizia Piccolo

[1] Il presente commento, nella versione ampliata, sarà pubblicato su C. Ventrella (a cura di), La dimensione giuridica della fragilità. Matrimonio e famiglia nella giurisprudenza canonica, vol. II.