La sentenza  coram Oliva, 13 novembre 2023, prot. n. 164.23 del Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano Pugliese di Bari dichiara la nullità matrimoniale per ‘timore incusso nell’attrice’. Un capo di nullità desueto ai tempi d’oggi ma evidentemente ancora esistente in particolari tessuti sociali, culturali e familiari, dove i genitori hanno un ruolo determinante nella decisione matrimoniale e nella scelta del partner dei loro figli, condizionandone la relativa volontà. Trattasi di sottomissione a persona percepita carismatica e psicologicamente dominante, identificata come autorevole e affettivamente necessaria, quale può essere la figura genitoriale, con cui esiste un rapporto di dipendenza e di subordinazione.

In linea di principio il Codice di diritto canonico prevede che l’atto compiuto per violenza proveniente dall’esterno è nullo se la persona non abbia potuto in alcun modo resistere a essa; mentre l’atto posto in essere per timore grave, ingiustamente incusso, è valido, a meno che la legge non disponga diversamente (can. 125, § 1 e 2 c.i.c.).

In generale l’atto giuridico deve essere frutto di due elementi: l’intelligenza e la volontà, la cui presenza rende perfetto l’atto umano. Si parla di vizio dell’atto giuridico se vi è stato un impedimento alla libera scelta o alla deliberazione che ha inciso sulla volontà di chi lo compie. Le cause o i vizi possono essere esterni e possono incidere sulla volontà: come nel caso del timore.

Il timore ex can. 125, § 2 c.i.c., detto anche violenza morale (vis relativa), è una pressione psicologica esercitata mediante minacce, che non comporta di per sé l’esclusione della volontà, come in caso di violenza fisica, ma che diminuisce soltanto la libertà degli atti. Un atto viziato da metus, tranne se è disposto diversamente dal diritto e se il soggetto, versando in particolari condizioni psichiche, perde il suo equilibrio, non rende nullo l’atto, ma rescindibile, ossia annullabile per sentenza del giudice.

Pertanto l’atto posto per timore grave è valido, ma rescindibile – salvo che la legge non stabilisca altrimenti – per un principio di diritto naturale in quanto l’atto compiuto ob metum è comunque volontario, sebbene non pienamente libero, in quanto frutto di ponderazione e di scelta del soggetto, il quale ha potuto contemperare diversi beni e accedere alla soluzione che gli pareva più idonea.

La dottrina ammette che il metus gravis sia considerato quale vizio del consenso anche quando è esercitato da un terzo e cioè quando, per esempio, chi esercita le minacce non è parte del contratto, né è colui che si avvantaggia direttamente dell’atto giuridico viziato.

Nello specifico, il can. 1103 c.i.c. riguarda il metus quale vizio del consenso matrimoniale perché statuisce: «è invalido il matrimonio celebrato per violenza o timore grave incusso dall’esterno, anche non intenzionalmente, per liberarsi dal quale uno sia costretto a scegliere il matrimonio». L’ordinamento canonico, infatti, intende tutelare la libertà dei soggetti nella scelta dello stato di vita, garantendo il loro diritto di essere immuni da qualsiasi costrizione (can. 219 c.i.c.).

In tale ipotesi il timore è quel turbamento dell’animo del soggetto causato da una pressione psicologica effettuata attraverso minacce o da una coazione morale, per liberarsi dalla quale il soggetto è obbligato a scegliere il male minore, ovvero il matrimonio. La coazione morale è determinata dal timore ed entrambi agiscono nella sfera psicologica del nubende. Tuttavia, affinché il metus possa incidere sul consenso matrimoniale deve essere grave, incusso dall’esterno e indeclinabile.

La gravità va valutata non in senso assoluto, ma tenendo presente la personalità, il sesso, l’età, l’indole, la biografia, le capacità intellettuali, il livello d’istruzione del metum patiens e il rapporto esistente col metum incutiens. Il dato che sia incusso ab extrinseco rileva perché l’intimidazione dell’animo deve nascere fuori dal soggetto passivo, da una causa esterna, umana e libera. Il requisito dell’indeclinabilità, poi, attiene alla constatazione e convinzione del metum patiens di non avere alcuna possibilità di opporsi alle nozze, che vengono ritenute l’unica via di fuga per sfuggire all’incombente male fisico o morale. In pratica il metus deve essere la causa che spinge a contrarre il matrimonio. Pertanto, il consenso coniugale è da dichiarare nullo se il nubente ha celebrato le nozze ob metum e non cum metum. Il timore non deve solo accompagnare il vincolo matrimoniale, ma deve esserne la causa.

La prova del timore, secondo la giurisprudenza, è diretta e indiretta. La prima consiste nella trepidatio animi posta in essere dal soggetto attivo che incute il metus. A fondamento della prova diretta c’è la confessione giudiziale e in particolare quella extragiudiziale, in tempo non sospetto, del metum incutiense del metum patiens; la deposizione dei testimoni degni di fede; gli indizi, i documenti e le varie circostanze (lo stato di gravidanza, un periodo di depressione psicologica) che rendono l’individuo più esposto all’intimidazione o alla paura e meno capace di reagire autonomamente. La prova indiretta, invece, si basa sull’aversio del soggetto passivo nei confronti della comparte e/o del matrimonio oppure verso il modo di contrarre le nozze o anche il tempo in cui esse devono essere fatte. In mancanza dell’avversione non si ritiene provato l’accusato metus. Risulta evidente quanto sia complicato tale accertamento, perché il timor gravis è un fenomeno che attiene alla coscienza del soggetto e alla sua intimità psichica. Per il foro esterno non si può procedere che attraverso congetture e indizi esteriori. Se quindi è pressoché impossibile provare lo stato d’animo del soggetto, si potrà invece dimostrare che la persona ha agito in uno stato di grave trepidazione per il fatto che si trovava in determinate circostanze esteriormente documentabili.

La fattispecie della causa di nullità matrimoniale in esame riguarda L., attrice, la quale a diciassette anni incontra G., convenuto, di due anni più grande, amico del fratello. Nonostante non sia il suo tipo, L. lo frequenta ‘per ripicca verso il suo fidanzato’. Durante la fittizia relazione l’attrice va oltre e, senza volerlo, rimane incinta. Da quel momento rimane ‘ostaggio’ di suo padre, che le impone il c.d. matrimonio riparatore. Essendo così giovane e da sempre remissiva, ubbidiente e condizionata da questa figura autorevole, pur non volendo sposarsi e ancor di più con G., che non ha ancora conosciuto caratterialmente, non trova il coraggio di sottrarsi alla decisione paterna. G. vuole che L. abortisca, ma la volontà del genitore della ragazza prevale perché per lei sposarsi è l’unica via di fuga per evitare conseguenze nefaste.

Il breve periodo prematrimoniale vissuto con G. dà la dimostrazione a L. che lui non è l’uomo per lei: l’incompatibilità di carattere fra loro porta a continui litigi. Nonostante ciò il matrimonio riparatore diviene la soluzione, imposta dal padre, a cui L. non riesce a sottrarsi. Dalle risultanze istruttorie emerge, infatti, che il consenso matrimoniale dell’attrice è viziato per timore reverenziale incusso dal padre, perché «giunse alle nozze nella condizione di chi non sa sottrarsi alla volontà cogente del padre che obbliga ad ogni costo la figlia al matrimonio, che dalla stessa non è voluto» (sentenza, n. 10). La coazione esercitata su L. è provata: dagli interrogatori emerge la sua particolare indole sottomessa e l’ambiente domestico in cui predomina la figura del pater familias. Proprio la presentazione che L. fa di sé «ci aiuta a comprendere il suo atteggiamento passivo e sofferto alla reazione che i suoi genitori hanno alla notizia dell’improvvisa gravidanza» (sentenza, n. 11). La stessa, infatti, dichiara: «Provengo da una famiglia composta dai genitori e sette figli, io sono la terza. Il mio è un ambiente familiare tradizionale, dove il ruolo di mio padre è stato sempre determinante per le decisioni dei figli. Ambiente culturale normale così come le condizioni economiche. Ho ricevuto una buona educazione morale e religiosa, di carattere sono un tipo sottomesso, non ho mai deciso per me. Ho sempre subito la volontà altrui» (ibidem).

E poi, relativamente al metus incutiens, L. precisa: «Mio padre mi disse subito di accettare il bambino, ma contemporaneamente mi impose senza appello di dovermi sposare. Mia madre e mio padre perfino mi picchiarono per quello che era successo» (ibidem). A ciò si aggiunge la condizione di minorenne dell’attrice e la spinta insistente del convenuto ad abortire, che fanno prevalere la volontà genitoriale di affrettare i tempi per la celebrazione del matrimonio.

Manca invece la confessione del padre, nel frattempo defunto. Tuttavia dalle deposizioni dei testimoni di parte attrice: la madre, il fratello e la moglie del fratello maggiore, risulta provata la trepidatio animi di L., la sua aversio al matrimonio e al futuro marito e quindi il metus incusso ab extrinseco (sentenza, nn. 11-13). In particolare M., la mamma, riferisce: «L. è una ragazza semplice, sottomessa, ha sempre ubbidito a noi genitori anche quando non era d’accordo. In un certo senso ci teneva specialmente al padre. L. ha frequentato fino alla scuola media […]. La decisione del matrimonio fu presa esclusivamente da noi, in particolare da mio marito che nonostante la contrarietà di L. impose categoricamente la celebrazione del matrimonio. L., per il suo carattere sempre sottomesso, non riusciva ad opporsi alla decisione del padre, per cui accettò passivamente la sua volontà […]. Queste affermazioni fanno luce sulla condizione di vita di L.» (sentenza, n. 12). Dello stesso tenore le testimonianze di R. e di D.

La gravità del timore incusso è provata anche dalle seguenti circostanze: la concretezza del caso, l’effettivo vissuto personale, familiare e sociale di L. che subisce l’intimidazione paterna, la rapidità e la modalità con cui venne presa la decisione matrimoniale, la mancanza del viaggio di nozze e l’atmosfera tutt’altro che gioiosa durante la celebrazione.

La lunga durata del matrimonio, ventitré anni, è soltanto un dato cronologico perché, di fatto, la vita coniugale è segnata da molte interruzioni: L. diverse volte lascia G., ma torna sui suoi passi soltanto per il bene della prole. Appena i figli raggiungono la maggiore età, infatti, la stessa ha il coraggio di separarsi e di divorziare per vivere una nuova vita. Finalmente – riferisce la madre – L. si è sentita libera perché ha messo in atto le sue intenzioni prematrimoniali e nello stesso tempo si è affrancata dal timore che il padre le incuteva (sentenza, n. 12).

Del resto L., nonostante i continui litigi, è costretta a rimanere col marito sia perché economicamente dipendente da lui sia perché ha dovuto interrompere da tempo i rapporti con la sua famiglia di origine per volontà di G. Dalla decisione emerge altresì che il concepimento del secondo figlio non è voluto dall’attrice, la quale, ancora una volta, è costretta a subire e a soccombere.

La pronuncia del Tribunale Pugliese desta un interesse particolare perché offre l’occasione per analizzare le concrete situazioni in facto riportate e il contesto socio-culturale in cui matura la stessa fattispecie, ovvero quella del consenso matrimoniale estorto per metus reverentialis incusso dal padre, il quale «a tutti i costi vuole [L., nda] sposata perché non accetta una figlia ragazza-madre» (ibidem).

Spesso in casi del genere, poiché probatio evadit difficilior, praesertim si agatur de metu reverentiali, ci si orienta verso un capo di nullità diverso dal metus ex can. 1103 c.i.c., utilizzando lo schema della simulazione totale (can. 1101, § 2 c.i.c.) per chi è moralmente forzato al matrimonio, soprattutto nel caso, come nella sentenza esaminata, del matrimonio riparatore.

Anzi attualmente, a fronte di un numero esiguo di dichiarazioni di nullità matrimoniali per metus ab extrinseco, si assiste a un incremento di quelle per mancanza di libertà interna ovvero per grave difetto di discrezione di giudizio ex can. 1095, n. 2 c.i.c. Trattasi di due capi di nullità distinti, sebbene secondo alcune posizioni giurisprudenziali il confine tra loro sia molto ridotto, tanto da individuare nel difetto di libertà interna una specie di metus ab intrinseco. La recente giurisprudenza rotale, invece, insiste sulla infungibilità e incompatibilità tra i due capi e sottolinea che l’‘estrinsecità’ non è il criterio per la loro individuazione. Piuttosto occorre ricercare attentamente i requisiti prescritti per ciascun capo di nullità, visto che c’è una evidente distinzione fra capacità e incapacità del soggetto di decidere per il matrimonio. Diversamente dalla fattispecie indicata dal can. 1095, n. 2 c.i.c., il metus è un vizio del consenso di una persona capace di prestarlo, ma indotta a farlo contro la propria volontà. In tal caso la sua libertà ‘per sé’ rimane intatta, mentre è modificato l’atto della volontà rendendone involontario l’oggetto.     

È necessario sempre distinguere se il nubente sia capace o meno di prestare il consenso matrimoniale, cioè se in presenza di un disturbo psichico sia privo della richiesta capacità critica, estimativa ed elettiva in ordine a tale decisione oppure se, pur capace di contrarre matrimonio, lo abbua fatto contro la propria volontà, perché sotto l’impulso di un grave timore, al fine di liberarsi dal male incombente.

Patrizia Piccolo