La Corte di Appello di Bari, Prima Sezione Civile, con l’ordinanza 943/2021, a seguito di rinvio dalla cassazione, si pronuncia sulla riconoscibilità di una sentenza iraniana di divorzio per effetto di ripudio da parte del marito, chiarendo i presupposti di applicabilità del limite di ordine pubblico.

Nel caso in esame, l’ufficiale dello stato civile di Bari aveva provveduto alla trascrizione nei registri una sentenza iraniana che aveva dichiarato lo scioglimento del matrimonio di una coppia, ritenuta illegittima dalla moglie.

Se nel primo giudizio la Corte d’Appello non aveva celato di ritenere che, per il fatto di riconoscere una condizione di privilegio del marito rispetto alla moglie, posto che il primo può divorziare dalla seconda senza che questa ne possa «paralizzare» la volontà, il divorzio iraniano realizzi un modello giuridico inconciliabile con le «regole inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali», l’odierno sindacato in sede di rinvio non può prescindere  da quanto statuito dalla Corte di legittimità, che ha chiarito come il limite dell’ordine pubblico che l’ordinamento interno pone al riconoscimento delle sentenze straniere deve estendersi dai principi costituzionali e norme inderogabili interne, sino ai principi internazionalmente condivisi, sicché il fatto che una pronuncia straniera applichi una disciplina materiale conforme o difforme a norme interne, «benché imperative o inderogabili» non può di per sé rappresentare un ostacolo sufficiente a determinare il rigetto del riconoscimento, posto che, diversamente opinando, «le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, (…) rendendo inutili le norme di diritto internazionale privato».

Mediante un nuovo approccio alla fattispecie, privo di alcun giudizio aprioristico e pregiudiziale, la Corte esamina pertanto il ricorso, fondato principalmente sulla equiparazione del divorzio iraniano, nella specie del divorzio Rojee, al ripudio, sulla scorta di una disciplina unilateralmente e discrezionalmente rimessa alla decisione del marito, e pertanto ritenuta in contrasto con il principio di uguaglianza tra i coniugi e di equo processo, dal momento che i diritti di difesa della moglie non erano stati garantiti; nonché sul mancato rispetto nel corso del procedimento divorzile dei principi del contraddittorio, soffermandosi soprattutto sul mancato ascolto del figlio, e sul fatto che la legge iraniana non prevede il diritto della donna a chiedere il divorzio, e nel processo la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo.

Tali motivi, tuttavia, non possono essere condivisi dalla Corte.

Per vero, la pronuncia, nella consapevolezza dell’importanza del dialogo fra le corti nella tutela dei diritti fondamentali, tiene in debita considerazione la giurisprudenza, anche straniera, che ha spesso impedito il riconoscimento per contrarietà all’ordine pubblico, in ragione della sua unilateralità, o per il suo determinarsi senza intervento di organi giurisdizionali, o più generalmente per la discriminazione che esso pone in essere nei confronti della donna, anche alla luce di quanto prevede l’art. 5 del protocollo n. 7 del 22 dicembre 1984 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo nei confronti delle donne del 1979, e della Risoluzione del 2005 dell’Institut de droit international, che aveva invocato il c.d. ordine pubblico di prossimità, limitando l’intervento del limite in esame ai casi in cui la moglie ha o ha avuto la cittadinanza dello Stato richiesto o di uno Stato che ignora il ripudio, o sia ivi residente abitualmente, e sempre che ella non abbia acconsentito al ripudio o abbia beneficiato di una protezione pecuniaria sufficiente. Quanto all’ordinamento italiano, la cittadinanza italiana della moglie che pertanto non vedesse riconosciuto il ripudio per effetto di questa prossimità del limite dell’ordine pubblico, troverebbe comunque un contemperamento nella circostanza che sul ripudio compiuto all’estero si possa fondare una richiesta di divorzio, secondo quanto prevede l’art. 3, n. 2 lett. e) della l. 898/70 sullo scioglimento del matrimonio.

Tuttavia, in tutti i precedenti esaminati, ciò che ostava alla compatibilità del ripudio con l’ordine pubblico era il fatto che l’istituto prevedesse la possibilità di sciogliere il vincolo coniugale sulla sola base della semplice volontà del marito, assurto quasi a titolare di una specie di «diritto potestativo» sulle sorti del matrimonio.

Ciò premesso, la Corte d’appello procede ad una attenta esegesi del diritto iraniano in materia di divorzio, che prevede 4 tipi di divorzi e fra questi, per quanto qui d’interesse, il divorzio Rojee che, ai sensi dell’art. 1148 cc, è revocabile da parte del marito, per tutta l’Eddeh, ovvero la fase di all’incirca tre mesi , in cui alla moglie è precluso di sposare un altro uomo, al fine di salvaguardare una possibile precedente gravidanza. Tuttavia, la ricorrente non ha né dedotto né provato alcunché in ordine alla contrarietà all’ordine pubblico degli effetti prodotti dalla sentenza di divorzio iraniana, nè ha esposto quali siano state le violazioni sostanziali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio in concreto perpetrate in suo danno nel giudizio di divorzio iraniano.

Attenendosi al principio di diritto dettato dalla Suprema Corte, la Corte d’appello verifica non già l’astratta compatibilità del sistema giuridico straniero con l’ordine pubblico, bensì degli effetti in concreto prodotti dalla decisione straniera, senza che le sia consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata o controllo contenutistico sul provvedimento.

In vero, agli atti di causa risultava che la ricorrente si fosse costituita in tutti i gradi di giudizio divorzile iraniano, sia stata assistita tecnicamente da un proprio difensore di fiducia e ha visto riconosciute tutte le richieste, nel rispetto dei diritti fondamentali di difesa e del contraddittorio; senza aver mai contestato la competenza del giudice iraniano a decidere sulla domanda di divorzio secondo la legge iraniana, né essersi mai opposta alla richiesta di divorzio.

Quindi, in concreto, la Corte non ritiene che il divorzio in questione sia assimilabile al ripudio né che possa produrre alcun effetto” contrario all’ordine pubblico.

Peraltro, l’asserita violazione, da parte della sentenza di divorzio iraniana, delle norme di cui agli artt. 64 e 67 della L n. 218/95, è esclusa anche dal fatto che siano stati preliminarmente accertati sia il disfacimento della comunione coniugale da parte dell’autorità giurisdizionale iraniana, mediante il tentativo di conciliazione esperito in sede giudiziale, che la comune volontà dei coniugi di divorziare.

Pertanto, in ossequio a quanto stabilito dall’ordinanza di rimessione della Cassazione, n. 1710/2020, la Corte non ritiene vi siano elementi per giudicare la sentenza di divorzio in questione contraria alle norme di Ordine Pubblico e, per l’effetto, respinge il ricorso, ritenendo legittima la trascrizione nei registri di matrimonio del Comune di Bari.

Vera Valente

 

*****

 

REPUBBLICA ITALIANA 

La Corte di Appello di Bari, Prima Sezione Civile, composta da signori magistrati:

Maria Mitola      – Presidente rel.

Alessandra Piliego – Consigliere

Silvia Di Fonso – Consigliere

ha pronunziato, nella causa iscritta nel registro generale dell’anno 2020 col numero d’ordine 1229 RG affari contenziosi (cui è riunito il proc. N. 1547/20 RG VG), la seguente

ORDINANZA

tra:

(OMISSIS) (C.F. OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avv. (OMISSIS) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio legale in (OMISSIS), (pec: OMISSIS per ricevere le notifiche e comunicazioni di cancelleria);

Ricorrente in riassunzione

a seguito dell’ordinanza n. 17170/20 della Corte di Cassazione, sez. I, depositata in data 14.08.2020, che ha disposto la riassunzione del giudizio sul ricorso n. rg. 7531/2017 dinnanzi alla Corte d’Appello di Bari, in altra composizione

contro

(OMISSIS) (C.F. OMISSIS), rappresentato e difeso dell’Avv. (OMISSIS), elettivamente domiciliato presso il suo studio in (OMISSIS), (PEC: OMISSIS per ricevere le notifiche e comunicazioni di cancelleria),

Resistente in riassunzione

***

All’udienza collegiale del 14.05.2021, a seguito della discussione orale, la causa è stata riservata per la decisione, con assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle memorie conclusionali ed eventuali repliche.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(OMISSIS), cittadina iraniana, in data 15.03.1999 contraeva matrimonio in Iran con (OMISSIS), anch’egli cittadino iraniano, da tempo residente in Italia ove si era trasferito anni prima per frequentare la facoltà di medicina e dopo la laurea, aveva iniziato ad esercitare la sua attività professionale di medico, ottenendo altresì la cittadinanza italiana.

Dopo il matrimonio la (OMISSIS) si era trasferita a Bari con il marito ma qui non era riuscita a trovare lavoro, pur essendo laureata in farmacia.

Dall’unione, in data 29/3/2000, era nato il figlio (OMISSIS).

I coniugi avevano vissuto separatamente per alcuni anni e la (OMISSIS) era stata prevalentemente in Iran con il figlio (secondo l’OMISSIS per sua scelta e secondo la OMISSIS perché costretta dal comportamento del marito nei suoi confronti).

In data 21.06.2013, (OMISSIS) conveniva in giudizio (OMISSIS), davanti al Tribunale di Bari per ottenere la separazione giudiziale dal medesimo, attesa l’impossibilità di protrarre la convivenza rivelatasi assai infelice.

Si costituiva in giudizio (OMISSIS) chiedendo la declaratoria d’inammissibilità del procedimento adducendo l’avvenuta conclusione, in Iran, della procedura di divorzio, ma il Tribunale emetteva comunque i provvedimenti relativi alla separazione, in assenza di adeguata documentazione; assegnava la casa familiare alla (OMISSIS) e condannava il marito a versarle l’assegno di mantenimento di euro 1.600,00 mensili, per la medesima e per il figlio, che era stato affidato congiuntamente ai genitori.

Nelle more, la sentenza iraniana di divorzio, impugnata in appello dalla (OMISSIS) e, successivamente, anche innanzi la Suprema Corte di Teheran, passava in giudicato, con conferma dell’affidamento del minore al padre e corresponsione a carico del medesimo dell’assegno divorzile in favore della moglie, nonché degli alimenti determinati per il periodo di matrimonio, e con il riconoscimento del diritto della moglie a mantenere il possesso della dote di 655 monete d’oro.

Tale sentenza definitiva iraniana veniva trascritta in Italia, in data 20/7/2015, unitamente all’atto divorzile del 15.2.2015 (doc.n.6 e 7 del fascicolo OMISSIS) nei registri di matrimonio del Comune di Bari (anno 2015, parte 2, serie C, n.309). Pertanto, l’(OMISSIS) chiedeva al Tribunale la cancellazione della causa di separazione dal ruolo.

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. e art 30 D.lgs. 150/2001, (OMISSIS) conveniva in giudizio (OMISSIS) e il Comune di Bari, in persona del Sindaco pro tempore, proponendo impugnazione all’avvenuta trascrizione nei registri di matrimonio del Comune di Bari della sentenza emessa in data 24/11/2014 dalla I sez. della Corte Suprema di Teheran, deducendo la difformità del diritto sostanziale e di quello processuale iraniano rispetto a quello italiano, per la mancanza di parità tra uomo e donna in quello Stato, per la violazione del principio del diritto sostanziale alla sharia, per il mancato riconoscimento del diritto del minore ad essere ascoltato nel procedimento che lo riguardava e, comunque, per la riconducibilità della fattispecie alla norma di cui all’art. 16 della L. n. 218/1995, stante la contrarietà della sentenza divorzile ai principi di ordine pubblico italiano. Deduceva, inoltre, l’omessa valutazione, in sede amministrativa, della conformità della decisione adottata in Iran ai principi di ordine pubblico italiano, per effetto delle prerogative proprie dell’Ufficio di Stato civile, tenuto a vagliare solo la regolarità formale del provvedimento giudiziario straniero, essendo sufficiente che il richiedente autocertifichi la conformità della sentenza all’art 64 l. n. 218/1995 e, concludeva chiedendo la cancellazione della trascrizione della Sentenza del 24.11.2014 della I sez. della Corte Superiore di Teheran, con vittoria di spese e onorari di causa.

In data 25.11.2016, con comparsa di costituzione e risposta, si costituiva in giudizio l’(OMISSIS), contestando la fondatezza dell’avversa domanda e concludendo affinché la stessa venisse dichiarata inammissibile e comunque infondata in fatto e in diritto, con condanna della (OMISSIS) al pagamento delle spese di giudizio.

Con parere del 7.11.2016, il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Bari chiedeva l’accoglimento del ricorso, condividendo la contrarietà all’ordine pubblico italiano della legge iraniana in materia di divorzio.

Con Ordinanza cron. n.1256/2016 del 25.11.2016, la Corte d’Appello di Bari così statuiva:

1) accoglie il ricorso proposto da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS) e del Comune di Bari, iscritto al n. R.G. 347/2006 e, per l’effetto, ordina all’Ufficiale di Stato Civile del Comune di Bari di cancellare la trascrizione della sentenza del 24.11.2014 della I sez. della Corte Suprema di Teheran, registrata e resa esecutiva in data 15.02.2015, dal certificato di matrimonio trascritto nei registri di matrimonio del Comune di Bari al n.309, Serie C, parte 2, anno 2015;

2) condanna parte resistente al pagamento delle spese di lite, liquidate in complessivi €2.665,00, oltre rimborso forfettario, CAP e IVA, come per legge, disponendo che il pagamento si eseguito in favore dello Stato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 133 del T.U. Spese di Giustizia.

Questa Corte aveva ritenuto, infatti, che la sentenza iraniana contrastasse con i principi fondamentali del nostro ordinamento, considerando che in Iran sussisteva una norma del codice locale (art. 1133) che prevedeva espressamente la possibilità per il marito di divorziare senza che la moglie potesse paralizzare questa iniziativa.

Alla luce delle suddette argomentazioni e ritenuti violati i principi fondamentali del nostro ordinamento, la corte aveva accolto il ricorso.

In data 10.3.2017 (OMISSIS) presentava ricorso per Cassazione impugnando la predetta ordinanza.

Si costituiva in giudizio (OMISSIS), la quale ribadiva le ragioni a fondamento della cancellazione della trascrizione della sentenza straniera e conseguentemente chiedeva il rigetto del ricorso.

In data 22.06.2020 la Corte di Cassazione, prima sez. civile, così statuiva:

accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa l’impugnata ordinanza nei limiti del motivo accolto e rinvia la causa davanti alla Corte d’Appello di Bari che, in altra composizione provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

A giudizio della Suprema Corte, era fondato il primo motivo di ricorso, presentato da (OMISSIS) il quale aveva lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 13, 14, 15 e 16, nonché degli artt. 31, 64 e 67 della l. 31 maggio 1995 n. 218 oltre che degli artt. 1133 e 1143 del codice civile iraniano.

Secondo la Cassazione, invero, la Corte d’Appello, nell’accogliere il ricorso di (OMISSIS) aveva esteso la propria cognizione alla normativa iraniana senza acclararne il tenore dispositivo.

Aveva infatti evidenziato, in particolare, la S.C. (pag. 6 e ss) che “quando il giudizio di delibazione si incentri sul requisito dell’ordine pubblico, la valutazione che si richiede al giudice deve mantenersi fedelmente aderente al dettato normativo dell’art. 64, comma 1, lett. g, L.n.218/95, secondo cui il riconoscimento della sentenza straniera non può avere luogo se le sue disposizioni producono “effetti contrari all’ordine pubblico” e, di conseguenza, occorre che il giudice, senza estendere la propria cognizione aliunde, valuti gli effetti della decisione nel nostro ordinamento e non la correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o della legge italiana, non essendo consentita un’indagine sul merito del rapporto giuridico dedotto.”

Quanto al paventato ripudio, la Corte di legittimità chiariva che “essa (la decisione ndr) mostra di dar corpo ad un giudizio che non ha propriamente ad oggetto gli effetti dell’atto, ma ne sindaca più apertamente il contenuto”.

Pertanto, secondo la SC, l’individuazione del limite dell’ordine pubblico avrebbe dovuto essere valutata con riguardo, esclusivamente, agli effetti dell’atto nell’ordinamento interno, in quanto l’ordine pubblico, nell’attuale fase storica, si identifica come il complesso di valori discendenti dalla Costituzione e dalle fonti internazionali e sovranazionali.

Anche con riguardo alla dedotta impossibilità, riconosciuta dall’ordinamento iraniano, di paralizzare, da parte della donna, la volontà del marito al divorzio, essa veniva valutata come eccedente i limiti operanti nel giudizio di delibazione, comunque non praticabile neppure prima che la nozione di ordine pubblico fosse oggetto dell’evoluzione in senso estensivo.

La Suprema Corte di Cassazione aveva accolto, quindi, il primo motivo di ricorso, dichiarato assorbito il secondo e cassato l’ordinanza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinviato la causa davanti a questa Corte d’Appello in diversa composizione.

In data 11.11.2020, (OMISSIS) ha presentato ricorso ex art. 392 cpc per la riassunzione del procedimento incardinato presso la Corte d’Appello di Bari ex. art 702 bis cpc e 30 D.lg. 150/2011, conclusosi con Ordinanza di accoglimento n. cronol. 1256/2016, datata 25.11.2016 e pubblicata il 28.12.2016, nel procedimento rg. n. 347/2016 chiedendo di:

“a) accogliere il ricorso per riassunzione e per l’effetto dichiarare e /o confermare la cancellazione della trascrizione della sentenza iraniana del 24.11.2014 emessa dalla I sez. della Corte Suprema di Teheran, registrata e resa esecutiva il 15.02.2015, trascritta nei registri di matrimonio del Comune di Bari anno 2015 parte 2 serie C n. 309; b) in subordine, confermare l’ordinanza di accoglimento della Corte d’Appello di Bari n. cronol. 1256/2016, datata 25.11.2016 e pubblicata il 28.12.2016, nel procedimento R.g. n. 347/2016; c) con vittoria di spese ed onorari di causa del presente procedimento, unitamente alle spese del procedimento svoltosi alla Suprema Corte di Cassazione”.

Successivamente alla riassunzione della (OMISSIS), mediante ricorso depositato ritualmente, (OMISSIS) notificava alla (OMISSIS) atto di citazione in riassunzione.

Entrambi si costituivano chiedendo il rigetto delle altrui domande, con condanna al pagamento delle spese di lite.

All’udienza di discussione del 14.05.21 i due procedimenti sono stati riuniti e la causa è stata riservata per la decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle difese finali.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso in riassunzione proposto da (OMISSIS) non è fondato e va respinto.

Va premesso che il sindacato di questa Corte, investita in riassunzione a seguito della sentenza della S.C n. 17170/2020 depositata in Cancelleria in data il 14.08.2020 – che ha cassato l’Ordinanza della Corte d’appello di Bari n.1256/2016 del 25.11.2016 – non può prescindere da quanto in essa statuito e segnatamente:

“(omissis) cassandosi la decisione da essa assunta, la Corte territoriale dovrà tornare nuovamente ad interrogarsi sulla questione, dove il ragionamento decisorio mostra più nitidamente la corda e si espone ad una critica più severa è nel recepimento, e sin’anco nella manifesta obliterazione, di alcuni punti fermi che emergono dallo stato dell’arte in materia di delibazione.

Giova, intanto, rammentare, secondo quanto da tempo si ripete da questa Corte – in ciò sollecitati dall’affermazione che, a riprova della disparità tra uomo e donna vigente nell’ordinamento iraniano anche sotto il profilo processuale, si legge nell’ordinanza circa il fatto che la moglie non possa «paralizzare» l’iniziativa divorzile del marito – che, quando si affronti il tema del riconoscimento interno delle sentenze straniere, il giudice della delibazione, debba «verificare se siano stati soddisfatti i principi fondamentali dell’ordinamento, anche relativi al procedimento formativo della decisione» (Cass., Sez. I, 03/09/2015, n. 17519) e, sia pur con la precisazione che non ogni violazione processuale assume portata ostativa (Cass., Sez. I, 17/02/2010, n. 3823), non possa perciò prescindere dal considerare, tra l’altro, alla stregua del criterio indicato dall’art. 64, comma 1, lettera b), l. 218/1995, se nell’ambito del processo svoltosi dinanzi al giudice straniero siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa, l’indagine al riguardo richiesta comportando «un controllo di regolarità dell’intero processo alla stregua dei principi di ordine pubblico sanciti dall’ordinamento interno a salvaguardia del contraddittorio e del diritto di difesa in ambito processuale» (Cass., Sez. 1, 22/07/2004, n. 13662)”.

Ed altresì “l’avvertenza che si vuole ricordare al giudice del rinvio – «le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, cancellando la diversità tra sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato» (Cass., Sez. IV, 04/05/2007, n. 10215). Anche sotto questa angolazione l’ordinanza in contestazione non va, infatti, esente da critica. Nel sondare l’istituto al suo esame la Corte d’Appello non ha fatto mistero di ritenere che, per il fatto, in particolare, di riconoscere una condizione di privilegio del marito rispetto alla moglie, posto che il primo può divorziare dalla seconda senza che questa ne possa «paralizzare» la volontà, il divorzio iraniano realizzi un modello giuridico inconciliabile con le «regole inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali». Così ragionando non solo mostra di far propria una convinzione in materia di ordine pubblico che non trova più riscontro nel diritto vivente, ma quel che più conta mostra di coltivare un’esegesi del limite concretamente operante nel giudizio di delibazione che non era praticabile, per quanto si è poc’anzi detto, neppure prima che la nozione di ordine pubblico fosse oggetto dell’evoluzione in senso estensivo di cui si è dato sopra conto”.

Rileva la Corte che costituisce principio consolidato – cfr. ex plurimis, Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 27343 del 29/10/2018 (Rv. 651022 – 01) – che “i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neanche alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della corte di legittimità”.

Così come “nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 c.p.c. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, è preclusa l’acquisizione di nuove prove, e segnatamente la produzione di nuovi documenti, anche se consistenti in una perizia d’ufficio disposta in altro giudizio, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore”- cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19424 del 30/09/2015, Rv. 636813 – 01; conforme Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26108 del 18/10/2018 (Rv. 651434 – 01)-.

Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso avanzata dalla parte resistente rilevando che, per contro, sul punto la giurisprudenza della SC è costante e consolidata nel senso che l’art. 392 c.p.c., comma 2, in forza del quale “la riassunzione si fa con citazione”, è destinato ad avere applicazione quante volte non trovi deroga nel disposto dell’art. 394 c.p.c., comma 1, il quale richiama le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la corte ha rinviato la causa, alla stessa stregua di una norma di carattere generale rispetto ad un’altra di carattere speciale (principi di cui è stata fatta ripetuta applicazione proprio in materia di rinvio conseguente alla cassazione di numerosi provvedimenti emessi in diverse materie: Cass. 4 agosto 1975, n. 2973; Cass. 12 marzo 1982, n. 1603; in materia tributaria: Cass. 28 settembre 1979, n. 5001, Cass. 6 marzo 1999, n. 1919; nelle controversie soggette al rito del lavoro: Cass. 13 marzo 1995, n. 2871, Cass. 18 maggio 1995, n. 5480, Cass. 30 gennaio 1998, n. 932; e nelle controversie di divorzio: Cass. 20 luglio 2004 n. 13422).

Ne consegue che la tempestività della riassunzione del giudizio, in relazione al termine di decadenza fissato dall’art. 392 c.p.c., comma 1, deve essere riscontrata avuto riguardo alla data del deposito del ricorso nella cancelleria del giudice del rinvio, laddove la riassunzione del processo con citazione, anziché con ricorso, non ne determina, in forza del principio della conversione degli atti viziati nella forma, l’inammissibilità quando, nei termini perentori fissati dalla legge la citazione anzidetta, indipendentemente dalla sua notificazione alle altre parti nei termini appena riferiti, sia stata altresì depositata in cancelleria, potendo il rapporto processuale ritenersi tempestivamente instaurato solo se un simile deposito risulti intervenuto nella pendenza dei termini sopra menzionati (cfr., da ultimo, Cassazione Civile n. 10529 del 15/04/2019).

A seguito di rinvio da Cassazione, (OMISSIS) ha nuovamente chiesto la dichiarazione e/o la conferma della cancellazione della trascrizione della sentenza iraniana del 24.11.2014, emessa dalla I sez. della Corte suprema di Teheran, registrata e resa esecutiva il 15.02.2015, trascritta nei registri di matrimonio del Comune di Bari, anno 2015, parte 2, serie C, n. 309.

Orbene, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera nell’ordinamento italiano, così come ampiamente motivato nell’ordinanza di rimessione della Suprema Corte di Cassazione, questa Corte deve avere riguardo agli “effetti” che le disposizioni del provvedimento straniero possono produrre nell’ordinamento interno e che, quindi, il limite dell’ordine pubblico- così come richiamato dall’art 64, comma 1, lettera g), l. 281/95, deve avere riguardo esclusivamente agli effetti dell’ordinamento interno.

È bene precisare, in primo luogo, che la sentenza di cui si discute è relativa alla possibilità di riconoscere gli effetti civili di una pronuncia emessa da un tribunale di uno Stato diverso da quello italiano.

Dunque, nel ribadire il pacifico divieto di (esame e) riesame nel merito che connota in generale il procedimento innanzi alla Suprema Corte e, in particolare, quello sul riconoscimento di una pronuncia straniera, la Cassazione aveva richiamato altresì i propri precedenti in occasione dei quali essa aveva evidenziato come il fatto che una pronuncia straniera applichi una disciplina materiale conforme o difforme a norme interne, «benché imperative o inderogabili» – quale il caso della norma di applicazione necessaria relativa al requisito dell’età per il matrimonio dei cittadini italiani (derivante dal combinato disposto degli artt. 115 e 84 c.c.69), – non può di per sé rappresentare un ostacolo sufficiente a determinare il rigetto del riconoscimento, posto che, diversamente opinando, «le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, (…) rendendo inutili le norme di diritto internazionale privato».

Tanto premesso la Cassazione ha criticato questa Corte di appello per avere ritenuto che, per il fatto di riconoscere una posizione di privilegio del marito rispetto alla moglie, il divorzio iraniano realizzasse un modello giuridico inconciliabile con le “regole inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali”; così ancorandosi a convinzioni che in materia di ordine pubblico non sono più coerenti con il diritto vivente, e interpretando il limite concretamente operante nel giudizio di delibazione in modo inconciliabile con la nozione di ordine pubblico anche precedente alla sua evoluzione estensiva.

A tal riguardo, è necessario valutare la questione sia in relazione al profilo processuale che in riferimento al profilo sostanziale e che la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato del 1995 ha esplicitato la necessità di condurre un’accurata valutazione circa gli effetti che il provvedimento straniero è passibile di produrre nel contesto dell’ordinamento interno. Ciò – lo si è visto – fa sì che non sia ab origine precluso il riconoscimento di una sentenza con cui si dà applicazione ad istituti giuridici che, pure, siano fondati su principi incompatibili con quelli posti alla base dei corrispondenti istituti del diritto materiale italiano.

Tuttavia, il senso della pronuncia della Cassazione che ci riguarda impone un approccio da parte di questo Collegio alla fattispecie che non si sostanzi in un giudizio aprioristico e pregiudiziale. La Cassazione, infatti, si è preoccupata di ribadire che il limite dell’ordine pubblico che l’ordinamento interno pone al riconoscimento delle sentenze straniere deve estendersi dai principi costituzionali e norme inderogabili interne, sino ai principi internazionalmente condivisi.

Il ricorso della (OMISSIS) si fonda principalmente su due motivi

  1. L’equiparazione del divorzio iraniano, nella specie del divorzio Rojee, al ripudio.

Tale disciplina, in quanto unilateralmente e discrezionalmente rimessa alla decisione del marito, è stata pertanto ritenuta in contrasto, per motivi di ordine pubblico sostanziale da un lato, con il principio fondamentale di uguaglianza tra i coniugi garantito dagli artt. 2, 3, e 29 Cost. italiana, nonché dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 5 del settimo protocollo addizionale alla Convenzione stessa, nonché all’art. 16 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, e per motivi di ordine pubblico processuale dall’altro, in quanto contrario ai principi di cui agli artt. 111 Cost. e art. 6 della Convenzione europea in merito all’equo processo, dal momento che i diritti di difesa della moglie non erano stati garantiti. Vengono pertanto richiamati i principi, dettati in una fattispecie di ripudio fra coniugi palestinesi dettati dalla decisione n. 16804 del 7.08.2020 della SC.

  1. Il mancato rispetto nel corso del procedimento divorzile dei principi del contraddittorio, soffermandosi soprattutto sul mancato ascolto del figlio, e sul fatto che la legge iraniana non prevede il diritto della donna a chiedere il divorzio, e nel processo la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo.

I motivi non possono trovare condivisione da parte di questa Corte.

Va premesso che il ripudio è stato oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di vari paesi, che ne ha spesso impedito il riconoscimento per contrarietà all’ordine pubblico, in ragione della sua unilateralità, o per il suo determinarsi senza intervento di organi giurisdizionali, o più generalmente per la discriminazione che esso pone in essere nei confronti della donna, anche alla luce di quanto prevede l’art. 5 del protocollo n. 7 del 22 dicembre 1984 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo nei confronti delle donne del 1979, secondo cui “i coniugi godono di uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra loro e nelle relazioni con i loro figli in merito al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento”. Tale soluzione è stata inoltre sostenuta dalla Risoluzione del 2005 dell’Institut de droit international, che, relativamente al riconoscimento dei ripudi, propone di richiamare l’ordine pubblico di prossimità, limitando l’intervento del limite in esame ai casi in cui la moglie ha o ha avuto la cittadinanza dello Stato richiesto o di uno Stato che ignora il ripudio, o sia ivi residente abitualmente, e sempre che ella non abbia acconsentito al ripudio o abbia beneficiato di una protezione pecuniaria sufficiente. Quanto all’ordinamento italiano, la cittadinanza italiana della moglie che pertanto non vedesse riconosciuto il ripudio per effetto di questa prossimità del limite dell’ordine pubblico, troverebbe comunque un contemperamento nella circostanza che sul ripudio compiuto all’estero si possa fondare una richiesta di divorzio, secondo quanto prevede l’art. 3, n. 2 lett. e) della l. 898/70 sullo scioglimento del matrimonio.

Inoltre, occorre considerare che il contrasto del ripudio con i principi fondamentali del diritto internazionale è particolarmente evidente con riguardo a quanto prevede l’art. 16, par. 1, lett. c) della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione. Invero, la questione della compatibilità delle decisioni di ripudio con l’ordine pubblico è risalente (cfr. Corte d’appello di Roma, 29 ottobre 1948, in Foro pad., 1949, I), ed è stata oggetto, nel corso dei decenni, di sporadiche decisioni di merito, a cui è seguita una sola, episodica, pronuncia della Cassazione (Corte di Cassazione, sentenza 5 dicembre 1969, n. 3881); l’orientamento giurisprudenziale che ne è risultato, escludeva la riconoscibilità degli effetti delle decisioni di ripudio, in ragione di un’incompatibilità con l’ordine pubblico determinata dal trattamento discriminatorio dei coniugi determinato dall’istituto. Ciò che ostava alla compatibilità con l’ordine pubblico era il fatto che l’istituto, come disciplinato, nel caso oggetto della pronuncia della Cassazione, dal diritto iraniano, prevedesse la possibilità di sciogliere il vincolo coniugale sulla sola base della semplice volontà del marito, assurto quasi a titolare di una specie di «diritto potestativo» sulle sorti del matrimonio ( in senso contrario, con riferimento ad un «provvedimento di divorzio» di diritto egiziano ritenuto riconoscibile, Corte d’Appello di Cagliari, sentenza 16 maggio 2008 n. 198).

Occorre allora partire dall’esegesi delle norme del diritto civile iraniano in materia di divorzio.

L’art. 1133 cc iraniano stabilisce che l’uomo, nel rispetto delle norme del codice civile può rivolgersi al Tribunale e chiedere il divorzio da sua moglie.

Anche la moglie può chiedere il divorzio al tribunale nelle ipotesi previste dagli artt. 1119, 1129, 1130[1] cc.

Il codice iraniano prevede poi 4 tipi di divorzi e fra questi, per quanto qui d’interesse, il divorzio Rojee che, ai sensi dell’art. 1148 cc iraniano, è revocabile da parte del marito, per tutta la fase temporale dell’Eddeh, che è la fase in cui è anche precluso alla moglie di sposare un altro uomo e dura all’incirca tre mesi ed è finalizzata a salvaguardare una possibile precedente gravidanza.

Tanto premesso va evidenziato come la (OMISSIS) non ha né dedotto né provato alcunché in ordine alla contrarietà all’ordine pubblico degli effetti prodotti dalla sentenza di divorzio iraniana, successivamente trascritta dal pubblico ufficiale del Comune di Bari in data 20.7.2015, contrari all’ordine pubblico.

(OMISSIS) non ha esposto quali siano state le violazioni sostanziali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio in concreto perpetrate in suo danno nel giudizio di divorzio iraniano, limitandosi nel giudizio di rinvio a richiamare i principi dettati dalla sentenza n. 16804 emanata dalla S.C. di Cassazione il 07.08.2020, nella diversa fattispecie di un divorzio palestinese che la Corte aveva ritenuto assimilabile ad un ripudio.

Nel caso che ci occupa la Suprema Corte, come già più e più volte ribadito, ha chiarito che il principio cui occorre attenersi nel presente giudizio, è quello di verificare non già la compatibilità del sistema giuridico straniero, con l’ordine pubblico, bensì se la decisione straniera produca effetti contrari all’ordine pubblico.

Il medesimo principio è stato ribadito dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n.9006/21 (Pres. Curzio, rel. Acierno) secondo cui “In sede di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale estero ex art. 67 della l. n. 218 del 1995, la verifica della compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale deve riguardare esclusivamente gli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non anche la conformità alla legge interna di quella straniera posta a base della decisione, né è consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata, essendo escluso il controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento.”

Dagli atti di causa risulta che (OMISSIS) (cittadina iraniana, farmacista di professione e di elevato ceto sociale) si è costituita in tutti e tre i gradi di giudizio divorzile iraniano (la sentenza di 1° grado di divorzio del Tribunale di Teheran è stata impugnata sia in appello sia presso la Corte Suprema), è stata assistita tecnicamente da un proprio difensore di fiducia e ha visto riconosciute tutte le proprie richieste, nel rispetto dei diritti fondamentali di difesa e del contraddittorio; nel corso dei tre gradi di giudizio la (OMISSIS)  non risulta aver mai contestato la competenza del giudice iraniano a decidere sulla domanda di divorzio secondo la legge iraniana, né si è mai opposta alla richiesta di divorzio, né, infine, ha mai eccepito la pendenza in Italia del giudizio di separazione dalla stessa successivamente introdotto innanzi il Tribunale di Bari.

Entrambe le parti hanno sempre accettato la potestas judicandi del giudice adito, in tutti i gradi di giudizio, fino alla definitiva pronuncia della Corte Suprema di Teheran; la posizione processuale e sostanziale della (OMISSIS), nei tre i gradi del processo di divorzio iraniano, risulta essere sempre stata garantita, né è stata eccepita e tantomeno provata, alcuna lesione specifica dei suoi diritti.

La sentenza di divorzio inoltre dà atto del rilascio del certificato di inconciliabilità dei coniugi e ha accolto tutte le richieste economiche avanzate dalla (OMISSIS) cui è stato assegnato l’assegno divorzile, la contribuzione per i servizi resi durante il matrimonio e la conservazione della dote nuziale di 655 monete d’oro- pari a oltre € 200.000 – che contrariamente a quanto affermato dalla (OMISSIS),  dagli atti di causa risulta interamente versata.

Non si ritiene, quindi, da parte di questa Corte che nella specie il divorzio possa ritenersi assimilabile al ripudio e che dunque, il provvedimento in questione sia idoneo a produrre alcun “effetto” contrario all’ordine pubblico.

Nel Verdetto di cui alla sentenza iraniana della Corte Suprema di Teheran (doc.n.7 fasc. di parte), si legge infatti: “Visto ed esaminato il fascicolo giuridico e il rapporto del membro revisore, riguardo la causa sollevata dal sig. (OMISSIS), …. che secondo la sentenza preliminare (primo grado) riportata col numero precisato nel rapporto del membro revisore, il certificato di inconciliabilità ai fini del divorzio del genere “Rojie”, previo il pagamento del compenso sia per i servizi resi durante il matrimonio che per il mantenimento del periodo eddeh, venne rilasciato, secondo quanto esposto e confermato in sede di appello…”. Nella sentenza di primo grado, della Corte della Famiglia di Teheran del 25.12.2013, si evidenzia “il fallimento dei tentativi della corte volti a stabilire pace tra i coniugi, e non incontrando opposizione da parte della convenuta, …è ricorsa ad emettere il certificato della mancata riconciliazione…” ( doc. n. 13 del fascicolo di parte di 1°grado OMISSIS).

La dedotta violazione, da parte della sentenza di divorzio iraniana delle norme di cui agli artt. 64 e 67 della L n. 218/95, dettate in tema di riconoscimento della sentenza straniera, è esclusa decisamente dal fatto che siano stati accertati, preliminarmente, il disfacimento della comunione coniugale da parte dell’autorità giurisdizionale iraniana, mediante il tentativo di conciliazione, esperito in sede giudiziale, e poi la comune volontà dei coniugi di divorziare, e che entrambi abbiano potuto esercitare in concreto il diritto di difesa.

E d’altra parte la volontà di divorziare di (OMISSIS) è confermata dalla circostanza che la medesima ha successivamente essa stessa avviato anche in Italia il giudizio di separazione.

Alla luce di quanto indicato e considerando quanto stabilito dall’ordinanza di rimessione della Suprema Corte di Cassazione, n. 1710/2020 del 14 agosto 2020 che ha stabilito: “Per decisione sulla richiesta di cancellazione della trascrizione dai registri dello stato civile italiano della sentenza straniera che abbia pronunciato il divorzio dei coniugi, a causa della contrarietà della stessa con l’ordine pubblico italiano, il giudice nazionale deve esaminare, ai sensi dell’arte. 64, lett. g), della l.n. 218 del 1995, se la decisione straniera produce “effetti” contrari al detto ordine pubblico, accertando se nel corso del procedimento straniero siano stati violati i diritti essenziali della difesa, sicché resta esclusa la possibilità di sottoporre il provvedimento straniero ad un sindacato di merito, valutando la correttezza della soluzione incontrata alla luce dell’ordinamento o di quello italiano” (Cass. sez. 14 agosto2020, n. 17170, Ced Cass. rv . 658878-01), è evidente, che non vi sono elementi per ritenere la sentenza di divorzio in questione, contraria alle norme di Ordine Pubblico previste nello Stato Italiano.

Il ricorso proposto da (OMISSIS) deve essere respinto ritenendosi legittima la trascrizione della sentenza iraniana del 24.11.2014 emessa dalla I Sezione della Corte Suprema di Teheran, registrata e resa esecutiva il 15.02.2015, trascritta nei registri di matrimonio del Comune di Bari, anno 2015, parte 2, serie C, n. 309.

(OMISSIS) va pertanto condannata alla rifusione in favore di (OMISSIS) delle spese del doppio grado, nonché di quelle del giudizio di cassazione, secondo le regole della soccombenza visti i parametri di cui al DM 55/14 e succ. mod. (valore indeterminabile complessità media parametri medi).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso proposto da (OMISSIS) e conferma la legittimità della trascrizione della sentenza iraniana del 24.11.2014 emessa dalla I Sezione della Corte Suprema di Teheran, registrata e resa esecutiva il 15.02.2015, trascritta nei registri di matrimonio del Comune di Bari, anno 2015, parte 2, serie C, n. 309.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore di (OMISSIS), al pagamento delle spese del doppio grado e del giudizio di Cassazione, che liquida in 8.066,00, per ciascuno dei giudizi innanzi a questa Corte e in € 6.271,00, per il giudizio di Cassazione, oltre rimborso forfettario nella misura del 15 % e ulteriori accessori.

Dà atto della sussistenza, a carico della ricorrente, dei presupposti per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello, a carico dell’appellante e in osservanza dell’art. 13 co. 1-quater D.P.R. 115/02, nel testo inserito dall’art. 1 co. 17° l. 228/12

Così deciso nella Camera di Consiglio della I sezione civile in videoconferenza del 28.09.2021

Il Presidente est.

Maria Mitola

[1] Art. 119: mancata corresponsione degli alimenti.

Art. 1130: Difficoltà o situazioni indesiderabili o imbarazzanti che rendano la vita matrimoniale insopportabile (malattie contagiose o mentali; condanne superiori ad anni 5; dipendenza da droghe o alcool; trascuratezza degli obblighi coniugali senza giustificazione; violenza domestica non sopportabile)