TEIP_74_2022

L’omosessualità, fino alla prima metà del ventesimo secolo, si è manifestata alla coscienza comune come un limitato fenomeno di comportamento sessuale deviante, come un fatto degradante del costume sociale.

Sebbene nel  DSM V l’omosessualità non compaia più nelle classificazioni internazionali delle malattie, la giurisprudenza rotale riconosce che l’incapacità del soggetto omosessuale di contrarre un valido vincolo matrimoniale non attiene tanto a un difetto di intelligenza o di volontà quanto piuttosto all’incapacità del soggetto, prevista dal can. 1095, n. 3, di donarsi all’altra parte da un punto di vista psicologico, affettivo e materiale per il suo rifiuto di accettare la mascolinità o femminilità del coniuge.

L’ omosessuale, essendo irresistibilmente attratto verso persone del suo stesso sesso, potrà trovare pieno appagamento solo nel rapporto con queste ultime, essendo radicalmente incapace di dare vita ad un consortium vitae hetero sexuale perpetuum et exclusivum, allo scopo di costituire quella intima communitas vitae et amoris coniugalis a Creatore condita suisque instructa legibus (Gaudium et Spes, n. 48), e ciò non soltanto dal punto di vista della conservazione dell’obbligo della fedeltà, ma anche del perseguimento di una unione armonicamente finalizzata al più ampio bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole.

La Chiesa Cattolica, infatti, non condanna precipuamente l’orientamento omosessuale, ma considera il relativo atto non umano perché contrario alla legge naturale e, dunque, precludente il dono della vita.

L’ulteriore evoluzione giurisprudenziale emersa in talune pronunce ritiene incapace di contrarre un valido matrimonio anche l’omosessuale cd. latente poiché si è osservato che la sua tendenza “celata” potrà pur sempre emergere durante la convivenza e, rendendo impossibile la vita coniugale. In questo caso, l’omosessualità latente, che si manifesta lapalissianamente nell’ambito del matrimonio, può renderlo nullo, se risultano in essa i caratteri di gravità e antecedenza esistenti al momento della celebrazione.

In relazione all’accertamento dell’ omosessualità in un processo di nullità matrimoniale, è prevista la collaborazione di un perito, al fine di accertare la necessaria connessione tra l’omosessualità e l’incapacità matrimoniale del soggetto. Occorrerà, inoltre, nella singola fattispecie verificare l’esistenza della gravità della condizione dell’omosessuale, in quanto non qualsiasi orientamento della pulsione e nemmeno qualsiasi comportamento, orientato sessualmente, può inficiare la validità del matrimonio. Diversamente, quando l’omosessualità è pubblicamente dichiarata, vissuta nell’ambito sociale, confessata in giudizio e confermata dalla controparte, accertata nella sua gravità dalle deposizioni testimoniali, tanto da rendere il soggetto del tutto inidoneo a realizzare la comunione coniugale il giudice può considerarsi svincolato nella sua decisione, senza doversi avvalere, necessariamente, di alcun supporto scientifico, che in tal caso sarebbe superfluo.

D’altra parte la perizia è uno strumento di ricerca della prova, non è essa stessa prova, trattandosi esclusivamente di un accertamento clinico.

Quanto innanzi brevemente premesso aiuta la comprensione della decisione in commento che mostra numerosi spunti di riflessione non solo per il puntuale richiamo alla giurisprudenza rotale, ma soprattutto per aver colto nella fattispecie presentata il nesso eziologico tra l’immaturità psico-affettiva della donna, che ha poi manifestato una personalità omosessuale, e l’inevitabile nullità del consenso prestato.

Dall’esame degli atti di causa si è potuta raggiungere la certezza morale ai sensi del can. 1095, nn. 2-3, in quanto la parte convenuta, all’epoca dei fatti, manifestava una personalità ancora in via di formazione e definizione a causa dell’educazione ricevuta all’interno del suo nucleo familiare, caratterizzato da una mentalità gretta e austera. Riferisce S., l’attrice: «Pur avendo vissuto in una famiglia unita devo dire che la mentalità chiusa dei miei genitori non favoriva il dialogo. Questo tipo di educazione ha ingenerato nella donna convenuta una «scarsa apertura al confronto e la limitata interazione sociale, che senza dubbio hanno inciso non poco nella grave difficoltà a strutturare in modo chiaro la propria personalità»(Sent. p. 14).

Dal colloquio peritale, inoltre, emerge che «l’ambiente familiare non ha incoraggiato la donna ad esprimere la propria personalità e i propri bisogni, non l’ha stimolata a scoprire i propri interessi e le ha impedito di esteriorizzare sentimenti ed emozioni».

Già prima di conoscere G., nella fase adolescenziale, la donna aveva intrattenuto una relazione meramente virtuale con una ragazza di Roma, ma in quel momento ella non aveva ancora una chiara coscienza delle sue emozioni né delle sue reali necessità affettive. Era, infatti, «incapace di riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni…la scarsa consapevolezza degli stati emotivi interiori e l’inadeguatezza degli strumenti per leggere e interpretare pulsioni e sentimenti impediscono a S. di valutare correttamente l’attrazione per una persona dello stesso sesso, che non è ammessa, anzi è contrastata e rimossa» (Sent. p. 16).

Il conflitto interiore vissuto da S. la porta a non cogliere adeguatamente l’assunzione degli obblighi matrimoniali e tutto ciò che il coniugio comporta; il suo approccio alle nozze è stato «estremamente superficiale, semplicistico, avventato, approssimativo, immaturo» (Sent. p. 19). Ella si accosta alla celebrazione solo per mera convenzione e non per un vissuto consapevole e maturato, anche in considerazione del fatto che ella, all’epoca delle nozze, non disponeva degli strumenti adeguati di «accettazione del suo orientamento sessuale».

Determinante ai fini del raggiungimento della certezza morale in merito all’impossibilità di S. di prestare un valido consenso è la confessione della stessa resa in giudizio. L’esame peritale, attraverso il colloquio clinico e l’esame psicodiagnostico, infine, unito all’intero impianto probatorio acquisito in atti, fornisce la prova clinica inconfutabile della compromissione della capacità critica della donna in ordine al consenso matrimoniale, rendendola incapace di donazione, mutua integrazione e oblazione sponsali.

Laura Mai